Sono una digital strategist specializzata nel settore vitivinicolo. Arrivo dal…
Conosco Umberto Trombelli, Miglior Sommelier del Lazio 2024, da diversi anni. È una di quelle personalità che non passa mai inosservata: c’è chi lo adora e chi non lo sopporta, ma una cosa è certa, è impossibile restare indifferenti a lui. Io, senza dubbio, faccio parte del primo gruppo. Avere a che fare con una personalità così vulcanica e sfaccettata non è cosa per tutti; il suo carattere diretto, la passione che mette in tutto ciò che fa e la sua schiettezza sono qualità che possono affascinare o spiazzare.
Umberto non è certamente uno che le manda a dire e anche per questo ero curiosa di conoscere il suo punto di vista sul “Lazio del vino”, un territorio che lui ama e difende con tutto sé stesso. Quello che segue è il risultato di una chiacchierata, in cui Umberto racconta in modo schietto la sua visione del futuro enologico del Lazio, tra sfide e potenzialità.
Come nasce la tua passione per il vino? Raccontaci come la tua storia personale ti ha portato a diventare il Miglior Sommelier del Lazio.
Il mio percorso è iniziato molti anni fa, si può dire fin da piccolo. Ricordo con affetto mia nonna Elisa, ex ristoratrice, che preparava i suoi manicaretti con cura. Ogni domenica era un momento speciale, tutti riuniti attorno alla sua tavola, con le sue leccornie fatte in casa. Ogni festività era scandita dalla sua cucina, che coordinava come una brigata, con figli e nipoti accanto. Vicino a lei c’era mio nonno Bebbo, Umberto Trombelli, imprenditore edile che per passione faceva il vino in casa, una tradizione tramandata dal padre. La vigna di trebbiano, bellone e malvasia impiantata dal mio bisnonno, cresceva sui terreni che oggi sono ancora un luogo di ritrovo per la nostra famiglia.
Cresciuto con questa eredità e una visione romantica dell’enogastronomia, nell’ottobre del 2014 decisi di iscrivermi a un corso da sommelier AIS, all’epoca non avevo ancora trent’anni. Fu l’inizio di un viaggio formativo, ma soprattutto emozionale. In ogni calice vedevo il lavoro pionieristico di chi aveva trasformato i territori in narrazioni eroiche del vino. Questi ricordi mi riportavano all’infanzia, a quelle esperienze familiari che, senza accorgermene, avevano radicato in me un profondo rispetto per ciò che è buono, bello e fatto con amore. Questo, per me, è ciò che distingue lo sfamarsi dal degustare.
La passione che i miei cari mi hanno trasmesso attraverso i loro gesti, i sapori e le emozioni, ha acceso in me una scintilla che ho voluto coltivare con la conoscenza approfondita, appassionata, viva e rispettosa dei nostri territori e di chi ogni giorno lavora per portarli in alto.
Dopo aver ottenuto il diploma AIS, ho iniziato un viaggio tra le aziende del mio territorio, estendendo poi lo sguardo a tutta la regione. Sono diventato Degustatore e Relatore AIS. Ho sempre continuato a presentarmi alle aziende senza titoli, come un semplice curioso, per conoscere le storie di chi vive il territorio con passione e dedizione.
Essere ambasciatore di questi valori, oggi ancora di più dopo la vittoria del concorso Miglior Sommelier del Lazio, mi spinge ancora di più a divulgare la cultura del vino con entusiasmo e consapevolezza, oltre i confini regionali e nazionali.
Ringrazierò sempre tutti coloro che hanno avuto la voglia di dialogare con me e di mettersi in gioco, dagli agronomi agli enologi, sommelier, produttori, ristoratori e giornalisti. Li ringrazio per gli scambi proficui con cui hanno arricchito questo percorso.
Come vedi il futuro del vino nel Lazio? Quali trasformazioni recenti ti rendono più ottimista?
Negli ultimi dieci anni, girando in lungo e in largo per la nostra regione tra visite in cantina, eventi e manifestazioni, ho notato un crescente entusiasmo tra i produttori, specialmente i più giovani. Spinti dall’energia e, a volte, dall’audacia di chi non ha nulla da perdere, sono riusciti a trasformare il Lazio in un vero e proprio laboratorio sperimentale del vino. Qui non solo sono stati riscoperti vitigni antichi e dimenticati, ma si è anche osato sperimentare nuove tecniche, trovando un equilibrio tra innovazione e rispetto per la tradizione millenaria della nostra regione.
Il Lazio ha una storia vinicola antichissima, che affonda le sue radici nei tempi di Columella, il quale, nel suo De Agricoltura, parlava delle eccellenze vinicole di questa terra. Queste tradizioni si erano in parte perdute, ma alcuni produttori lungimiranti le hanno recuperate, diventando oggi dei veri punti di riferimento. I giovani produttori, ispirati da queste radici, hanno scelto però di esplorare anche nuovi percorsi, rendendo il panorama vitivinicolo del Lazio più vivo e florido che mai.
Un evento storico che ha segnato questo cambiamento è stata la chiusura di molte cooperative tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Questo ha lasciato molti produttori senza sostegno, costringendoli a ripartire da soli, facendo leva sulle proprie capacità e risorse. Da questa sfida sono nate alcune delle aziende che oggi rappresentano le pietre miliari della produzione vitivinicola della nostra regione.
Il Lazio ha un grande patrimonio di vitigni autoctoni. Credi che siano valorizzati come dovrebbero? Quali sono le potenzialità inespresse?
Abbiamo riscoperto molti vitigni grazie al lavoro di diversi produttori, ma la domanda che mi pongo è: siamo sicuri di averli valorizzati appieno? Sicuramente tutto è perfettibile e ci sono margini di miglioramento, ma in alcuni casi mi chiedo se abbiamo davvero imboccato la strada giusta. Un esempio è il bellone: fino a qualche decennio fa, questa bacca bianca neutra veniva usata come uva da tavola o come uvaggio secondario per dare struttura e alcolicità ad altri vini. Oggi, invece, è uno degli autoctoni più apprezzati e valorizzati. La sua neutralità, una volta considerata una debolezza, è diventata la sua forza. Grazie a questa versatilità, il bellone è stato rilanciato in molte forme: come bianco fermo, spumante Martinotti, Metodo Classico, in anfora, in legno, e persino come passito. Sembra non avere limiti per chi ne ha colto l’essenza.
Altri vitigni, come il Cesanese, stanno finalmente ottenendo riconoscimenti anche fuori regione, e cominciano a farsi apprezzare per le loro qualità. Per quanto riguarda il Nero Buono e l’Abbuoto, su cui si lavora da anni, c’è ancora spazio per sperimentare e approfondire la loro conoscenza.
Quello che manca, a mio avviso, è una conoscenza più approfondita, sia storica che genetica, dei diversi cloni e biotipi. Intuiamo delle interconnessioni tra questi vitigni e quelli di altre regioni, ma mancano ancora studi scientifici concreti in questo campo. Credo che sia un’area su cui investire nei prossimi anni e mi piacerebbe parteciparvi.
Il Lazio ha anche grandi vini, ma spesso manca una comunicazione efficace. Qual è la chiave per raccontare meglio il vino della regione?
Gran parte dei meriti e dei demeriti spettano a noi sommelier, che spesso ci lasciamo influenzare da mode e dicerie, invece di condurre un’analisi oggettiva confrontandoci direttamente con i produttori e i professionisti del settore. Spesso rimaniamo chiusi, come un pesce rosso in una boccia di vetro: intuiamo che esiste un mondo oltre il nostro, ma non ne facciamo mai realmente parte. Chiudersi in sé stessi non porta mai a nulla di buono. Sono felice, però, che con la nuova AIS Lazio, insediata un paio di anni fa, ci sia stata fin da subito la volontà di rilanciare i nostri territori, aprendo le porte a chiunque potesse dare un contributo positivo.
D’altro canto, non possiamo dimenticare che a volte i produttori sono i primi nemici di sé stessi, incapaci di fare squadra per innalzare la narrazione qualitativa delle loro zone. In questo contesto, sento di aver dato il mio contributo al cambiamento: in questo decennio di esperienze enologiche, ho sempre cercato di tessere rapporti, costruire reti di professionisti e appassionati, progettare e partecipare a percorsi che favorissero la collaborazione e lo sviluppo sul territorio.
Tu sei di Latina, un territorio che negli anni è stato molto sottovalutato. Me ne parli?
I malpensanti potrebbero dire: “E’ come chiedere all’oste se il vino è buono”. Io risponderei con una famosa battuta comica: “So de Latina”. Ma usciamo da questo goliardico impasse e veniamo a noi.
Latina è una delle province più giovani d’Italia, una terra che fino al ventennio fascista era coperta da paludi. La bonifica ha restituito terreni mai coltivati prima, vergini dal punto di vista agricolo, ricchi di risorse idriche e incredibilmente fertili. Un tempo, questi terreni erano usati solo per il pascolo di bestiame semi-selvatico, come le spinose, quelle che oggi chiamiamo bufale.
Qui si è creato un microclima eccezionale, tanto che la provincia è stata definita la “California d’Italia”. In meno di 30 chilometri, si passa dai 1.500 metri del picco Nardi, sulla Semprevisa, al mare, attraversando uno spaccato di biodiversità unico. Non è un caso che l’Oasi naturalistica di Ninfa, definita dal New York Times il giardino più romantico al mondo, ospiti una fauna e flora rarissime, con acque tra le più pure d’Europa.
Immagina cosa significhi produrre uva in un luogo così straordinario: ci sono aziende con vigneti a soli 500 metri dall’oasi! E poi ci sono i vitigni autoctoni, come il Nero Buono e l’Abbuoto, ma anche il Moscato di Terracina e il Bellone, che nel dopoguerra erano considerati uve da tavola, riscoperti solo grazie all’opera pionieristica di alcune cantine.
Il paradosso è che molti italiani non sanno nemmeno dell’esistenza di questa provincia. Eppure, qui c’è un fermento, una voglia di riscatto e originalità che sta facendo rifiorire il territorio. Pensa che ci sono cantine che hanno alle spalle solo tre vendemmie, eppure osano già fare esperimenti coraggiosi, come rifermentare in bottiglia il Nero Buono vinificato in bianco. Questa è l’audacia pionieristica che caratterizza la provincia di Latina, un fazzoletto di terra che racchiude “cielo e mare”.
Cosa rende il Lazio unico nel panorama vinicolo italiano? E come possiamo attrarre un pubblico internazionale verso questo territorio?
Basterebbe dire che il Lazio è uno dei pochi luoghi al mondo in grado di offrire vino da ogni tipo di terroir, e anche di più. Se ci pensiamo un attimo, nel Lazio possiamo produrre uva da montagna, collina, pianura, mare, lago, vulcano e isola. Prendiamo la sola provincia di Latina: abbiamo il picco Nardi a 1.550 metri sul livello del mare, le isole Pontine, il lago di Paola, il Fogliano, Ninfa e il Parco Nazionale del Circeo. Qui passiamo dal mare ai laghi costieri salmastri fino alle oasi naturalistiche come Ninfa, con sorgenti di acqua dolce che sfociano in torrenti di pianura. Un caso più unico che raro.
E non è tutto. Ci sono produttori che vinificano l’Incrocio Manzoni Bianco sul lago di Bolsena, altri che producono Aleatico nella Tuscia, e persino chi ha l’audacia di coltivare e vinificare il clone Corso di Vermentino, un caso davvero eccezionale in Italia.
Abbiamo storia, biodiversità, tradizione e il coraggio di osare e sperimentare. Credo che al Lazio non manchi nulla, se non una maggiore dose di orgoglio e consapevolezza. È ora di trasformare alcuni di questi voli pindarici e sperimentazioni, ormai consolidati da anni di esperienza, in eccellenze riconosciute a livello nazionale e internazionale, superando finalmente il ruolo di comprimari o, peggio, di Cenerentole del vino italiano.
Il futuro del vino laziale è ricco di possibilità: quali scenari intravedi nei prossimi anni per la regione?
A mio avviso, ci sono due scenari principali davanti a noi: quello “virtuoso” e quello “sciantoso” (perdonatemi il termine dialettale).
La Sciantosa. È l’atteggiamento di chi dice: “Io ho riscoperto il vino del Lazio, io ho riesumato l’autoctono dimenticato, io ho prodotto questo capolavoro enologico. Quindi, grazie a me, potete bere questo vino difficile, che per voi è un nemico del palato, ma che io considero eccezionale e autentico. Gli altri sono arrivati dopo e non capiscono nulla, ci hanno copiato. Lascia stare che i nostri vini non siano facili da bere: sono autentici, tipici, e sono gli altri, quelli che fanno vini apprezzati dai consumatori e dalla gastronomia, che non ci hanno capito niente. Il mio vino non è difettato, è tipico. Fidati di me, che sono 20 anni che bevo solo il nostro vino perché tutto il resto fa schifo.”
Non credo ci sia altro da aggiungere. Questa mentalità appartiene a una minoranza faziosa e ormai datata, gente che parla sempre male degli altri perché si considera custode di una verità assoluta, magari scoperta durante un sogno mistico. E tutto questo senza mai aver maturato una vera competenza, ma affidandosi a consulenze esterne, spesso discutibili, sostenuti solo dalla loro stabilità economica. Alla fine, è solo un business speculativo che danneggia il consumatore finale. Questa dinamica purtroppo si ripete in molte realtà, non solo qui nel Lazio.
La Virtuosa. Qui parliamo di persone temerarie, grandi e piccoli produttori che si cercano a vicenda perché hanno bisogno l’uno dell’altro. I piccoli hanno bisogno della visibilità che i grandi possono offrire, mentre i grandi necessitano della creatività e dell’innovazione dei piccoli. È vero che spesso i piccoli arrivano per primi con idee rivoluzionarie, ma solo i grandi, con le loro risorse e la loro rete, possono far conoscere al mondo queste nuove espressioni del territorio.
Come la vedo io – o meglio, come vorrei vederla – è attraverso un grande lavoro di squadra. Oggi, e lo dico con convinzione, il Lazio è il laboratorio enologico e vitivinicolo più interessante d’Italia. Questo è dovuto a vari fattori: un territorio estremamente eterogeneo e fertile, capace di dare vini con caratteristiche uniche a seconda di dove vengono piantate le viti, e la sfacciataggine di chi non ha più nulla da perdere. Da sempre considerata una regione di “seconda scelta”, il Lazio è oggi un’esplosione di creatività e innovazione, dove si producono vini da ogni tipo di territorio immaginabile. Una situazione più unica che rara.
Quali sono i tuoi consigli per chi vuole contribuire al successo del vino laziale, dai produttori ai comunicatori?
Direi: dammi tre parole, e non sono “sole, cuore, amore”, ma stop ai luoghi comuni dove Lazio = “cosa hai detto?”, Lazio = quantità, ovvero solo una fonte di approvvigionamento per altre denominazioni fuori regione, Lazio = “ah, il vino degli antichi romani.”
È vero, Columella è stato eccezionale, ma oggi siamo nel 2024. Abbiamo tecnologia, esperienza e tecniche di cantina che ci permettono di osare. Grazie ai tanti “giovani”, sia per età che per spirito pionieristico, il Lazio sta facendo un lavoro straordinario di rilancio enologico, anche se ancora poco riconosciuto. Questi giovani sono i protagonisti di un Rinascimento, non solo regionale ma anche nazionale, che mi auguro venga presto riconosciuto.
Lasciati da parte gli antichi romani, senza voler creare polemiche, già ai tempi dello scandalo dell’etanolo, il Lazio era tra i principali produttori di vino in Italia, non solo per quantità ma anche per qualità. Purtroppo, negli anni successivi, questa qualità è andata perduta, in parte perché la nostra regione, non colpita dallo scandalo, si è trovata con un’eccessiva sovrapproduzione che veniva “donata” ad altre regioni, spesso attraverso il sistema delle cooperative. Da qui, si è passati dalla qualità alla quantità. Come già accennato, il fallimento di molte di queste cooperative ha poi aperto la strada a un Rinascimento della produzione vitivinicola nel Lazio. Nonostante tutto, alcune cooperative sono riuscite a mantenere un approccio di qualità nel loro lavoro, distinguendosi fino ad oggi.
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio né creare una caccia alle streghe, ma se avessimo colto l’opportunità creata suo malgrado dallo scandalo dell’etanolo per produrre sì molto, ma con qualità, oggi non saremmo costretti a parlare del Lazio come della “Cenerentola” del vino italiano.
Chi sono i protagonisti della rinascita del vino laziale, coloro che stanno facendo la differenza sia nella produzione che nella comunicazione? Fammi i nomi!
Siamo onesti: se facessi dei nomi specifici come Tizio o Caio, inevitabilmente farei torto a qualcuno. Ma questo non significa che mi esima dal riconoscere chi ha dato un contributo significativo.
Parlo dal mio vissuto personale, fatto di tante esperienze positive, ma anche di porte prese in faccia nel mondo del vino della nostra regione.
Un nome su tutti, che mi riguarda da vicino, è quello di Francesco Guercilena, Presidente di AIS Lazio. Ha avviato una rivoluzione gentile che ha messo al centro competenze, conoscenze e intraprendenza delle eccellenze regionali. La prova più evidente è il suo impegno nel creare una squadra regionale capace di valorizzare e scovare le eccellenze anche nei luoghi più impensabili del Lazio. Questo già basterebbe, ma non è tutto: senza i produttori che sfidano schemi e convenzioni, oggi di cosa parleremmo? Il mondo del vino esiste grazie a loro, e il ringraziamento nei loro confronti è doveroso. Come non citare poi il lavoro di studio e conoscenza del territorio portato avanti da alcune aziende in tutte le province? Veri sperimentatori, che conoscono a fondo il potenziale della nostra regione. A loro, tanto di cappello.
Un ringraziamento speciale va anche alla ristorazione, che ogni giorno crede e investe nel vino del Lazio. Non solo nelle proposte culinarie, ma anche nell’audacia di combattere i pregiudizi, presentando con coerenza i nostri vini in abbinamento ai piatti locali. In sala, spesso si combattono stereotipi ingiustificati, e grazie a questi professionisti, piano piano si stanno smantellando.
E i giornalisti? Non posso non citare il lavoro di Fabio Turchetti, Tiziana Briguglio, Antonio Di Spirito, Daniele Cernilli (Doctor Wine), Pasquale Pace (il Gourmet Errante), e Carlo Zucchetti, che con passione continuano a realizzare guide e momenti di valorizzazione del territorio, in particolare sul Cesanese. Anche Jacopo Manni di Intravino, che ha portato nuova luce ai territori del Frascati. E come non menzionare Carlo Petrini, Presidente di Slow Food, e Rocco Tolfa, vicedirettore del TG2, che insieme a Marcello Masi hanno dato vita a eventi come I Vini d’Abbazia, dedicati alla valorizzazione territoriale.
Con tutti loro ho avuto il piacere di confrontarmi e di crescere, sia a livello personale che professionale, contribuendo alla creazione e al supporto di eventi che spero abbiano arricchito entrambe le parti.
Qual è il consiglio più importante che daresti a un giovane sommelier che vuole emergere nel mondo del vino?
“Segui il tuo cuore, punta alle stelle e prova a raggiungerle. Nessuno è più grande di te.” Queste parole di Irene Grandi riassumono perfettamente ciò che vorrei dirti. Sii sempre te stesso. Io ho volato sulle ali di una passione radicata in una storia familiare secolare, fatta di alti e bassi, ma sempre autentica. Non esiste un “giusto” o uno “sbagliato” assoluto, esiste solo ciò che è vero per te.
Se un vino non ti piace, va bene, è una questione di gusto personale. Ma, come professionista, dovrai sempre dare un giudizio imparziale, sia che si tratti di una cena tra amici o di un panel di degustazione. Assicurati che la tua opinione rifletta davvero la tua formazione, le tue capacità e la tua esperienza, mai i tuoi pregiudizi.
Mettiti in gioco, sempre. Non permettere che le invidie di chi vorrebbe essere al tuo posto offuschino la tua luce. Concentrati invece sullo splendere, mostrando sempre la migliore versione di te stesso. Diventa un cultore appassionato del tuo territorio e di ciò che ti fa vibrare. Non fermarti mai: esplora, viaggia, scopri. Ogni annata è una storia a sé, quindi ritagliati sempre il tempo per approfondire e comprendere i tuoi territori.
Non affidarti ciecamente ai mentori o ai falsi profeti. Prova, gioca, sperimenta, vivi e goditi le opportunità del tuo territorio. Pensa con il tuo palato e la tua testa, non con ciò che ti viene suggerito o sconsigliato. Abbi il coraggio di sbagliare. Alla fine, sai che ti dico? Nulla è per sempre. Osa, cambia, sperimenta sempre. Abbi il coraggio di metterti in discussione, perché solo chi non ha nulla da dire si sente “arrivato”.
Mi sono dimenticata di farti una domanda, una curiosità, da dove nasce il soprannome Bebbo?
Giusto, torniamo un po’ alle origini di questa chiacchierata. Ti raccontavo di nonno Bebbo, ovvero nonno Umberto Trombelli, a cui devo il mio nome, per via di una tradizione familiare che assegna al primo figlio maschio il nome del nonno paterno. Da adolescente, ho spesso litigato con questa tradizione, perché mi sembrava un po’ singolare, tipica di un’Italia pre-guerra.
Col tempo, però, questo nome così particolare, che in adolescenza mi sembrava difficile da portare per il desiderio di omologarmi, è diventato un’identità vera di cui mi sono rinnamorato. È raro che in una stanza si senta chiamare “Umberto” e che non sia rivolto a me, o, curiosamente, a mio cugino Umberto Trombelli, enologo di fama internazionale. Come a dire che il vino ci scorre davvero nelle vene: nonno produttore, cugino enologo, io sommelier – tutti Umberto Trombelli, uniti non solo nel nome, ma anche nella passione.
Il soprannome “Bebbo” deriva dal fatto che, da bambino, non riuscivo a pronunciare correttamente il mio nome, storpiandolo in Bebbo, con due B, ed è così che divenne anche il soprannome di mio nonno, che prima era chiamato bonariamente “Umbertino”.
Anche se non c’entra molto con la domanda, devo dire che ho avuto la fortuna di godermelo anche in età adulta. Nonostante i suoi crescenti acciacchi, ha sempre accolto i miei traguardi con un sorriso. Austero com’era, ha saputo vedere in me difficoltà e potenzialità che nemmeno io riuscivo a cogliere, ed è stato molto esigente perché credeva davvero in quel potenziale.
Tutto ciò che sono, sia come persona che come uomo, lo devo all’educazione ricevuta dai miei nonni e bisnonni, che sono stati per me una presenza costante e amorevole. Dalla cucina semplice ma ricca di amore di nonna Giovanna e nonno Pietro, ai piatti indimenticabili di nonna Elisa, fino alla saggezza severa di nonna Domenica e nonno Eligio, ognuno di loro mi ha insegnato valori fondamentali che porto con me ogni giorno.
Un ringraziamento speciale va anche a tutti gli addetti del settore che hanno accolto la mia curiosità e sete di conoscenza, permettendomi di crescere e sperimentare. Dedico infine, il premio come Miglior Sommelier del Lazio, al mio amico e collega Silvio Nunzio Signore, con cui ho condiviso una passione profonda per il vino e la vita. Anche se non è più con noi, il suo spirito vive ancora in tutto ciò che faccio e nella Delegazione di Latina di AIS Lazio.
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Sono una digital strategist specializzata nel settore vitivinicolo. Arrivo dal mondo dell’arte e della "Comunicazione Visiva".