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Gabriele Graia: l’evoluzione dei vini laziali.

Gabriele Graia: l’evoluzione dei vini laziali.

Elena Della Rosa
Il volto in primo piano dell'enologo Gabriele Graia che lavora soprattutto nel Lazio

Il volto in primo piano dell'enologo Gabriele Graia che lavora soprattutto nel Lazio

Nell’ultimo anno mi è capitato di imbattermi più volte in vini laziali davvero interessanti. Quando parlo di “vini interessanti” mi riferisco ad etichette di gran lunga sopra la media prodotta in regione. Vini che non si limitano ad essere piacevoli – vini come tanti altri – ma che si distinguono per un carattere profondo, sfaccettato e originale. Nell’ultimo articolo vi ho raccontato per esempio di Cantina del Tufaio e in particolare della giovane produttrice di Zagarolo, Nicoletta Loreti. È proprio intervistando Nicoletta che mi sono resa conto che dietro molti di questi vini che ho appena nominato, provenienti da cantine differenti, ricorreva lo stesso nome: Gabriele Graia.

“Possibile che ci sia dietro sempre tu?”  gli ho scritto. Così ho pensato fosse interessante fargli qualche domanda per raccontarvi chi è questo ragazzo giovanissimo dalla mano tanto felice che, ne sono certa, ci riserverà moltissime sorprese in futuro proprio qui in regione.

Come è nata la tua passione per il vino?

Nel 2005, mentre frequentavo a Pisa il secondo anno della specialistica in Ingegneria Informatica per la gestione d’azienda, ho avuto l’occasione di andare per la prima volta ai 3 Bicchieri di Torino, allora organizzato da Gambero Rosso e Slow Food; mi piaceva bere vino, ma non avevo ancora la passione, trovandomi di fronte a vini buonissimi parlando con i produttori mi è scattato qualcosa, anche se la vera scintilla è stata l’assaggio di un Amarone Quintarelli Riserva 1996, una sensazione indescrivibile, un vero nettare degli Dei.

Dopo questa degustazione decido di intraprendere nel 2006 il corso di I° Livello AIS a Pisa, poi concluso con gli altri due livelli all’AIS-Bibenda di Roma nel 2008.

Sempre nel giugno 2008, mentre lavoravo come consulente informatico a Roma e frequentavo il II° livello di Sommelier, grazie anche ai bellissimi racconti del prof. Paolo Lauciani sulla storia del vino, ho capito che l’Informatica non era una passione così forte, ma che volevo far parte invece di questo mondo così affascinante.

Senza ombra di dubbio il momento decisivo per la mia carriera enologica è stato l’incontro con il compianto Andrea Franchetti nel luglio 2010, che mi ha dato la possibilità di lavorare con lui a Tenuta di Trinoro in Val d’Orcia e successivamente a Passopisciaro sull’Etna. È tramite i suoi contatti che sono finito prima in Argentina nel 2012, dove tutt’ora lavoro, e poi a Piglio nel 2013. Mi convinse ad andare a Piglio l’allora amministratore di Tenuta di Trinoro, Pierluca Proietti.

Piglio. Raccontami la tua esperienza qui nel Lazio.

Come dicevo, mi convinse ad andare a Piglio l’allora amministratore di Tenuta di Trinoro.

È il 2014. All’epoca avevo un piccolo progetto, la Costa Graia, con altri due soci Pierluca e Daniele Proietti. Contemporaneamente gestivo vigna e cantina per la Pileum.

Una stagione molto complicata per via delle frequenti piogge primaverili, diciamo un po’ come nel 2018 e in parte quest’anno. In vigna avevamo un approccio biologico, ma nei primi due anni non eravamo, all’esigenza, contro il convenzionale. L’annata 2014 mi ha fatto capire l’importanza di camminare quotidianamente tra le vigne e quanto le gestioni convenzionali a ‘calendario’ – attuate nel passato – fossero state nocive nei confronti dei vigneti, generando patogeni resistenti ai fitofarmaci e ceppi di peronospora molto aggressivi.

Collaboro fin dalla vendemmia 2019 con Maria Ernesta Berucci, una cara amica che mi ha aiutato ad ambientarmi nei primi anni di vita a Piglio, ben 10 anni fa. Oggi è una bellissima realtà che è riuscita ad entrare nel catalogo Triple A – la prima e sola cantina del Lazio – da circa un anno.

Da un paio di anni visito sporadicamente Giovanni Ceccaroni, un appassionato di vino, che secondo me farà molto bene nel futuro, la Cantina si chiama Colle Gioie e produce circa 5.000 bottiglie tra passerina e cesanese.

Dal 2020 dialogo settimanalmente e partecipo agli assaggi di cantina anche con Marta e Federico di Sassopra a Frascati, anche se da un paio di anni si sono trasferiti nella bassa Toscana a Celle sul Rigo. Fanno bianchi laziali e rossi toscani. Li ho conosciuti ad una cena organizzata da un caro amico, Claudio Celio*, una cena in cui abbiamo assaggiato vini elaborati con e senza solfiti. Da quel giorno siamo diventati ottimi amici, loro sono veramente fuori di testa. Nel senso buono!

Come sai già, ho iniziano una collaborazione da quest’anno con Cantina del Tufaio a Zagarolo per la parte biodinamica di vigna e l’elaborazione dei vini in cantina. La famiglia Loreti ha molta passione per quello che fa e si vede, per me è un piacere poter fare qualcosa con loro.

*Per chi abita nella Capitale, Claudio Celio organizza delle degustazioni molto interessanti. Si chiamano “Degustazioni dal Basso” (Elena). 

La veduta di una vigna del Lazio Gabriele Graia

Quali sono le sfide e le opportunità per il Lazio, oggi?

Il Lazio è stata per tanti anni una regione sottovalutata e sconosciuta in Italia e nel Mondo, praticamente assente dalle principali carte dei vini fuori Roma, sicuramente perché nel passato c’erano prodotti mediocri e mal comunicati. La situazione ora è cambiata, soprattutto all’estero grazie all’ottimo lavoro fatto dai Sommelier ed importatori USA; mentre purtroppo in Italia è ancora difficile ritagliarsi il proprio posto, diciamo che servirebbe una spinta di comunicazione e marketing anche a livello regionale, come è stato fatto per le Marche qualche anno fa, migliorare la parte di recettività e collaborare realmente tutti insieme verso un unico obiettivo comune.

Le cantine piccole stanno facendo un gran lavoro, puntando sulla sostenibilità e qualità dei propri prodotti, purtroppo non posso dire lo stesso delle medio-grandi che continuano a rincorrere il mercato, con prezzi ancora troppo bassi che svalutano il prodotto.

Qual è la tua opinione sull’impatto del cambiamento climatico sull’industria vinicola, specialmente qui nel Lazio? Nuove tecnologie e intelligenza artificiale, come credi che cambierà il settore e come sarà la convivenza con il concetto di “naturale”?

Il cambiamento climatico va affrontato pensando prima di tutto che quello che si faceva alcuni anni fa in vigna e in cantina non va più bene, o comunque non è più sufficiente. C’è bisogno di aumentare la materia organica del suolo, evitare impianti intensivi o di monocolture a grossa richiesta d’acqua. È ancora troppo presto per parlare di vini prodotti da nuovi uvaggi più resistenti alle malattie, ma sicuramente bisogna rivedere i propri porta innesti e le zone di coltivazione, alcune non avranno molta chance di essere condotte in maniera naturale se si vuole fare vino di qualità.

Mi stimola l’idea di piantare sempre più in altitudine per cercare di avere dei migliori pH naturali; il grande problema del surriscaldamento globale è quello di aver avuto una diminuzione importante dell’acidità totale ed un aumento quindi dei pH con conseguenti problemi microbiologici dietro l’angolo.

L’intelligenza artificiale per ora non so come potrà impattare sula produzione vitivinicola, essendo questa espressione della natura e dell’artigiano. Sicuramente un’idea sul prodotto che ora vogliono i giovani l’ha data, basti vedere le risposte generate da GPT ad un’intervista di Intravino.

Per esempio, il futuro vede l’utilizzo droni (es. trattamenti fitosanitari più efficienti e precisi), o con mezzi elettrici che possano diminuire il numero di CO2 emessa.

Innovazione o tradizione?

L’innovazione, così come la tecnologia, in cantina è importante ma non strettamente necessaria. Penso che l’uva abbia tutto l’occorrente per poter diventare vino anche con l’utilizzo di apparecchiature meno all’avanguardia. In base alle nostre scelte e alle decisioni possiamo indirizzare il prodotto. Non sono contro la tradizione se necessaria ad ottenere il vino che si vuole, ritengo a mio avviso che avere differenti contenitori, di distinto materiale, aiuti anche ad avere maggiori espressioni di uno stesso territorio, vitigno o vigneto che, in annate sempre più pazze, permette al produttore di scegliere il blend o la partita che più gli è congeniale.

Non possiamo pensare di ripetere la stessa fermentazione o tipo di affinamento tutti gli anni perché l’annata e quindi l’uva cambia, il produttore è chiamato a doverla interpretare come meglio crede secondo la sua filosofia e gusto personale.

Qual è la tua idea di vino?

Il vino prima di tutto deve essere buono e non fare male a chi lo beve, quindi senza difetti troppo pronunciati o eccessi di solforosa che possano intaccarne le qualità organolettiche. Ritengo che non si debba intervenire troppo in vinificazione, è molto più importante lavorare in vigna per avere un’ottima qualità delle uve, ma neanche lasciare che una fermentazione vada per la tangente in caso di problemi. Bisogna conoscere il proprio vigneto e quello che si vuole ottenere altrimenti si fanno dei gran casotti che poi sono difficile da recuperare; è importante essere meticolosi nell’organizzazione e nella pulizia della cantina, non fidarsi mai solo delle analisi ma utilizzare principalmente la propria capacità sensoriale e l’istinto.

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Ci sono due momenti particolari per me, quello dell’assemblaggio di diversi lotti in cui si definisce il futuro vino che andrà in bottiglia, e la degustazione post imbottigliamento, quando capisci che sei riuscito nell’intento di portarti a casa l’annata e che gli sforzi dell’annata non sono stati vani.

L’aspetto più sfidante sicuramente è quello della fermentazione e dell’affinamento senza solfiti, perché anche se si hanno uve perfette, una cantina pulita e una maniacale attenzione ai dettagli, non è detto che non si possa incappare in problemi sgraditi e rovinare il lavoro fatto fino a quel punto. Il vino è una matrice viva, piena di attività microbiologica e ci vuole poco che quella sbagliata prenda il sopravvento.

Mi ritengo un autodidatta, cerco sempre di imparare da tutti, naturalmente uso solo quello che ritengo possa servire alla mia visione di vino. Dopo le prime esperienze in aziende più o meno grandi, dove si utilizzavano prodotti enologici e protocolli di fermentazione, ho visto in Argentina un approccio più artigianale e ‘meno interventista’ grazie all’enologo danese Hans Vinding e a Piero Incisa della Rocchetta. Questa esperienza ha cambiato totalmente la mia idea di vino.

A Bodega Chacra, con investimenti costanti in vigna quanto in cantina, stiamo facendo 200.000 bottiglie certificate Biologiche, con livelli di solforosa sempre sotti i 40ppm o senza solfiti, l’agricoltura è Biodinamica certificata Demeter. Questi risultati mi rendono molto orgoglioso.

Cantina Argentina in cui lavora Gabriele Graia

C’è un vino o un’annata particolare a cui sei particolarmente legato?

Il vino e l’annata a cui sono più legato è sicuramente il CHACRA 32 Vendemmia 2018 in Patagonia Argentina, dove abbiamo ottenuto i 100 punti. È stato considerato da Suckling miglior vino al mondo nel 2019.

Come vedi l’evoluzione del settore vitivinicolo in Italia e nel mondo nei prossimi anni?

I dati che emergono non sono incoraggianti. Diventa sempre più collassato il settore di vendita dei vini e i prezzi medi – a causa dell’inflazione – stanno salendo di più rispetto agli stipendi. Quindi meno gente giovane beve vino. È vero che sono nate tante realtà piccole o medie negli ultimi anni che hanno generato una sana concorrenza, questo era vero fino a qualche anno fa. Ora invece è una lotta sui prezzi.

Qual è una grande sfida di questo lavoro?

La sfida più grande è quella di convincere il produttore a cambiare determinate convinzioni, purtroppo spesso ci si scontra difronte a scettiscismi e ideologie che a mio parere rallentano il processo creativo, ma in fin dei conti ci sta, fa parte del gioco.

C’è un errore comune che vedi commettere ai produttori e un consiglio da dare?

Si investe troppo poco in vigna. Ci sono pratiche ed attrezzature che migliorano la qualità del lavoro e quindi del vigneto. Così come non si investe abbastanza nell’immagine/vendita con figure professionalmente capaci e già del settore.

Se dovessi scegliere una sola competenza essenziale per un enologo emergente oggi, quale sarebbe?

Saper valutare le analisi tecniche senza dimenticare la propria conoscenza empirica e sensoriale.

 

Da quando sono diventato padre di due meravigliose bimbe nel 2019 e 2021 ho acquisito una maggiore consapevolezza. Essere genitori aumenta la complessità della vita, ma aumentano anche le competenze: il modo di relazionarsi, l’empatia, le capacità organizzative e di gestione dello stress. Un allenamento che ti ritrovi anche sul lavoro!

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